• Sentenze Ente: Consiglio di Stato

Pubblicato il 16/02/2024

N. 01568/2024REG.PROV.COLL.

N. 08064/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8064 del 2017, proposto da Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato dall'avvocato (...);

contro

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

Società (...) Italiana S.p.A., non costituita in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 9003/2017.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale.

FATTO

1. La Regione Puglia ha impugnato, con ricorso di primo grado, il provvedimento con cui, in data 18 ottobre 2016, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di concerto con il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, ha stabilito “la compatibilità ambientale relativamente al progetto di prospezione geofisica 3D da realizzarsi nel conferendo permesso di prospezione di idrocarburi liquidi e gassosi convenzionalmente denominato d 3 F.P - . S.C. situato nelle acque del Golfo di Taranto, presentato dalla società(...)Italiana S.p.A., a condizione che vengano rispettate le prescrizioni e gli adempimenti amministrativi indicati negli allegati che costituiscono parte integrante del presente decreto”, chiedendone l’annullamento.

A sostegno del ricorso la regione Puglia – dopo aver rappresentato che il permesso di cui si discute “si sviluppa su un’area integralmente compresa nel Golfo di Taranto, prospiciente perciò le coste della Regione Puglia, Basilicata e Calabria”, connotata da una “superficie complessiva di 4.030 Kmq”, e che, dunque, interessa “una porzione decisamente significativa del Golfo di Taranto” – ha lamentato in primo luogo la violazione del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca (750 Kmq) previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991”.

In via subordinata, la Regione ha dedotto l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991, nella parte in cui non estende il limite spaziale di 750 kmq anche ai permessi di prospezione di cui all’art. 3, della legge n. 9 del 1991, e quest’ultimo non prevede il medesimo limite indicato per la ricerca, tenuto conto che le “nozioni di prospezione e di ricerca sono nozioni che non si differenziano da punto di vista tecnico” e, dunque, la non eventuale estensione del disposto dell’art. 6 in argomento anche alla prospezione non potrebbe che concretizzare una “palese violazione degli articoli 3 e 9 Cost.”, in relazione al principio di ragionevolezza.

Con un terzo motivo di gravame la Regione ha dedotto il vizio di eccesso di potere per carenza di istruttoria in relazione alla mancata considerazione degli effetti cumulativi con gli altri titoli abilitativi vigenti o in itinere.

2. Il T.a.r Lazio, con sentenza 27 luglio 2017, ha respinto il ricorso, compensando le spese di lite.

3. Contro quest’ultima decisione la Regione Puglia ha proposto appello, reiterando criticamente i motivi del ricorso di primo grado.

4. Si è costituito nel presente giudizio di appello il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, chiedendo di dichiarare l’appello infondato.

5. In vista dell’udienza pubblica del 21 dicembre 2023 le parti hanno ulteriormente specificato e argomentato le rispettive posizioni giuridiche.

6. Alla pubblica udienza del 21 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. La questione all’esame del Collegio attiene alla esatta individuazione della ragione giustificativa del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca (750 Kmq) previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991.

2. L’appello non è fondato.

2.1. Con il primo motivo la Regione Puglia deduce l’erroneità della sentenza impugnata per la ritenuta infondatezza del primo motivo del ricorso di primo grado, con il quale era stata denunciata la violazione del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di prospezione (750 Kmq), previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991.

Ad avviso della Regione, l’area interessata dal decreto occupa una porzione di 4.030 kmq., ossia una superficie ampiamente superiore a quella legislativamente consentita dal comma 2 del richiamato art. 6, applicabile non solo ai permessi di ricerca ma anche ai permessi di prospezione, tenuto conto che gli stessi “si pongono in un rapporto di genere a specie, essendo che le attività consentite dal secondo” (rectius: il permesso di prospezione) “sono senz’altro comprese in quelle consentite dal primo” e, conseguentemente, non vi è ragione “che la normativa concernente il permesso di ricerca non debba estendersi al permesso di prospezione, non essendovi fra i due titoli alcuna significativa differenza”, tenuto conto che si tratta di attività “analoghe” (seppure la ricerca “contenga in sé anche le perforazioni meccaniche”). A sostegno dell’assunto, in data 4 maggio 2017, la Regione appellante ha prodotto nel giudizio di primo grado una relazione tecnica asseritamene idonea a dimostrare “l’equivalenza tra le attività di prospezione e di ricerca di idrocarburi” e la “mancata considerazione degli effetti cumulativi nella procedura” di VIA.

2.2. Con un secondo motivo, in via subordinata, la Regione deduce l’erroneità della sentenza impugnata per la ritenuta infondatezza del primo motivo del ricorso con il quale era stata denunciata in primo grado la illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, e dell’art. 3 della legge n. 9 del 1991, nella parte in cui il primo non estende il limite spaziale di 750 Kmq anche ai permessi di prospezione di cui all’art. 3 14 e quest’ultimo non prevede il medesimo limite indicato per la ricerca.

Secondo la parte appellante, la violazione degli artt. 3 e 9 Cost. discenderebbe dalla irragionevolezza della normativa considerata, nella parte in cui non sottopone allo stesso regime e agli stessi limiti attività sostanzialmente analoghe quali quelle di prospezione e di ricerca, le quali differenzierebbero dal punto di vista tecnico, essendo le attività concrete esattamente le medesime, ancorché disciplinate rispettivamente dagli artt. 3 e 6 della legge n. 9 del 1991.

2.3. I primi due motivi di appello non sono fondati.

La giurisprudenza di questa Sezione, sin dalla decisione 8 marzo 2018, n. 1487, è costante nell’affermare la non equiparazione tra l’attività di ricerca e l’attività di prospezione e l’assenza di profili di incostituzionalità con riferimento all’art. 6, comma 2, ed all’art. 3 della legge n. 9/1991, laddove questi non estendono l’applicazione del limite spaziale di 750 kmq anche ai permessi di prospezione.

Si è a tal riguardo sottolineato che “…..preme rimarcare la netta differenziazione tra l’attività di “prospezione”, oggetto della fattispecie di cui è giudizio, e l’attività di “ricerca”, chiaramente delineata dall’art. 2 del D.M. 25 marzo 2015.

Peraltro, occorre dare conto che la descrizione di tali attività presente nel decreto del 2015, sebbene questo sia stato colpito dalla declaratoria di illegittimità costituzionale con sentenza della Corte costituzionale 4 -14 luglio 2017, n. 198, ha trovato piena conferma nel successivo D.M. del 7 dicembre 2016, il quale, all’art. 2 specifica:

“d) «attività di prospezione»: attività consistente in rilievi geografici, geologici, geochimici e geofisici eseguiti con qualunque metodo e mezzo, escluse le perforazioni meccaniche di ogni specie, ad eccezione dei sondaggi geotecnici e geognostici, intese ad accertare la natura del sottosuolo e del sottofondo marino;

e) «attività di ricerca»: insieme delle operazioni volte all'accertamento dell'esistenza di idrocarburi liquidi e gassosi, comprendenti le attività di indagini geologiche, geotecniche, geognostiche, geochimiche e geofisiche, eseguite con qualunque metodo e mezzo, nonché le attività di perforazione meccanica, previa acquisizione dell'autorizzazione di cui all'art. 1, commi 78 e 80 della legge n. 239/2004, come sostituiti dall'art. 27 della legge n. 99/2009”.

(…) In particolare, dopo la pronuncia con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.M. 25 marzo 2015 in quanto non spettava allo Stato e per esso al Ministro dello sviluppo economico adottare il detto provvedimento senza adeguato coinvolgimento delle Regioni, il D.M. 7 dicembre 2016, a decorrere dal 4 aprile 2017, ha abrogato e sostituito il provvedimento annullato, così costituendo il nuovo riferimento normativo ai fini della distinzione richiamata.

Per tali ragioni, ed in considerazione della richiamata motivazione posta a fondamento della declaratoria di illegittimità costituzionale, non può essere accolta la domanda di disapplicazione di quest’ultimo decreto.

(…) Infine, non può essere parimenti accolta la questione di legittimità costituzionale sollevata da parte appellante con riferimento all’art. 6, comma 2 ed all’art. 3 della legge n. 9/1991, laddove questi non estendono l’applicazione del limite spaziale di 750 kmq anche ai permessi di prospezione, risultando la stessa, ad avviso del Collegio, manifestamente infondata.

Invero, come si rileva anche dalla lettura delle definizioni di cui al D.M. 7 dicembre 2016, le attività di prospezione e ricerca presentano una distinzione determinante laddove quest’ultima, a differenza della prima, implica potenzialmente l’esercizio di attività di perforazioni meccaniche. La possibile incidenza della perforazione sul territorio, e la rilevanza delle relative conseguenze su di esso, dunque, legittimano e fanno ritenere pienamente giustificato il differente trattamento normativo rispetto all’attività di mera prospezione”.

In tal senso si è costantemente orientata la successiva giurisprudenza della Sezione (Cfr.: Consilio di Stato n. 8098/2023; Consilio di Stato n. 4586/22).

In particolare, la Sezione, con ordinanza n. 1154/2020, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, la seguente questione interpretativa: “se la direttiva 94/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994 vada interpretata nel senso di ostare ad una legislazione nazionale quale quella descritta, che da un lato individua come ottimale ai fini del rilascio di un permesso di ricerca di idrocarburi un’area di una data estensione, concessa per un periodo di tempo determinato - nella specie un’area di 750 chilometri quadrati per sei anni- e dall’altro lato consente di superare tali limiti con il rilascio di più permessi di ricerca contigui allo stesso soggetto, purché rilasciati all’esito di distinti procedimenti amministrativi”.

Con la sentenza del 13 gennaio 2022, resa nella causa c-110/20, la Corte di Giustizia ha stabilito il principio di diritto secondo cui “la direttiva 94/22 e l'articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva VIA devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede un limite massimo all'estensione dell'area oggetto di un permesso di ricerca di idrocarburi, ma non vieta espressamente di rilasciare a uno stesso operatore più permessi per aree contigue che insieme coprano una superficie superiore a detto limite, purché una tale concessione possa garantire l'esercizio ottimale dell'attività di ricerca di cui trattasi sotto il profilo tanto tecnico quanto economico nonché la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 94/22”.

Da tanto discende l’infondatezza dei primi due motivi esaminati.

3. Con un terzo mezzo di gravame la Regione deduce l’erroneità della sentenza impugnata per la ritenuta infondatezza del terzo motivo del ricorso di primo grado, con il quale era stata denunciata la mancata considerazione, da parte del MATTM, degli effetti cumulativi con gli altri titoli abilitativi vigenti o in itinere, che ridonderebbe in carenza di istruttoria ed eccesso di potere – nonostante il fatto che lo stesso preambolo del parere della Commissione Tecnica di Valutazione dell’Impatto Ambientale VIA e VAS dia conto dell’avvenuto rilascio di “altri dieci titoli minerari incidenti in aree vicine o limitrofe”, “non vi è (…) stato alcuno studio riguardante l’impatto cumulativo dei diversi titoli”, essendosi limitata la Commissione a stabilire che il Proponente “si impegna … a prendere contatti con l’altro operatore per redigere un cronoprogramma delle operazioni che ne escluda la simultaneità”.

3.1. Il motivo non è fondato.

Dalla documentazione in atti, e segnatamente dall’esame del decreto ministeriale emerge, contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione Puglia, che la Commissione non ha omesso di considerare “l’impatto cumulativo dei diversi titoli”.

La Commissione, in particolare, ha proceduto all’individuazione e, quindi, all’elencazione di tutti i “titoli minerari vigenti nell’area vasta”, ponendo, tra l’altro, in evidenza lo “stato del procedimento autorizzativo”, precisando, inoltre, “che nel caso in cui uno o più titoli minerari venissero rilasciati con una tempistica tale che renda possibile effettuare i lavori nello stesso periodo in cui si svolgerà l’attività di prospezione geofisica proposta, il quadro prescrittivo del presente parere impegna il Proponente a prendere contatti con l’altro esecutore per redigere un cronoprogramma delle operazioni che ne escluda la simultaneità” (cfr. pagg. 42 e 43).

3.2. Il Collegio ulteriormente osserva che quando, come nel caso di specie, viene in rilievo l’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, il sindacato giudiziale, al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri, è consentito soltanto quando risulti violato il principio di ragionevolezza.

Nel caso in esame, l’operato della Commissione, non risulta irragionevole in quanto basato sull’imposizione di precisi e ben definiti impegni a carico del “proponente”, diretti ad evitare l’effettuazione simultanea di indagini sismiche in aree adiacenti e, in termini generali, a stabilire l’obbligo di procedere ad un continuo monitoraggio sulle ricadute connesse all’attività di prospezione oggetto di valutazione positiva sotto il profilo della compatibilità ambientale.

3.3. In tale direzione conduce anche la corretta applicazione alla fattispecie in disamina del principio di precauzione.

Il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica.

Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”.

Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”.

Mentre, infatti, la prevenzione può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza «di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili», la precauzione, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.

Il fondamento concettuale della logica precauzionale può essere ricondotto al principio del cosiddetto maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.

Ne discende che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.

Grazie all’elaborazione della giurisprudenza euro-unitaria, il principio di precauzione ha trovato una esplicita qualificazione giuridica quale “principio generale del diritto comunitario”.

Nella prima pronuncia significativa in tema (c.d. sentenza Artegodan Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre,Artegodan GmbH e aa. c. Commissione delle Comunità europee,) il giudice europeo ha affermato che il principio di precauzione costituisce «il principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici».

Nella successiva elaborazione giurisprudenziale, i giudici europei hanno avuto modo di individuare, con maggiore dettaglio, gli elementi qualificanti del principio di precauzione, chiarendo, innanzitutto, che «la valutazione del rischio non può basarsi su considerazioni puramente ipotetiche» e che deve sussistere comunque la «probabilità di un danno reale» (Così Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan GmbH e aa. c. Commissione delle Comunità europee). Proprio in relazione ai “connotati” di fatto che deve assumere il rischio da fronteggiare, risultano estremamente significativi i passaggi argomentativi della c.d. “sentenza Pfizer”( Cfr. Tribunale CE, Sez. III, 11 settembre 2002, in causa T-13/99, Pfizer Animal Health SA c. Consiglio dell’Unione europea)nella quale si legge : «Nel contesto dell’applicazione del principio di precauzione – che è per definizione un contesto d’incertezza scientifica – non si può esigere che una valutazione dei rischi fornisca obbligatoriamente alle istituzioni comunitarie prove scientifiche decisive sulla realtà del rischio e sulla gravità dei potenziali effetti nocivi in caso di avveramento di tale rischio. (..) Tuttavia, (..) una misura preventiva non può essere validamente motivata con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente. (..) Dal principio di precauzione, come interpretato dal giudice comunitario, deriva, al contrario, che una misura preventiva può essere adottata esclusivamente qualora il rischio, senza che la sua esistenza e la sua portata siano state dimostrate pienamente” da dati scientifici concludenti, appaia nondimeno sufficientemente documentato sulla base dei dati scientifici disponibili al momento dell’adozione di tale misura. (..) Il principio di precauzione può, dunque, essere applicato solamente a situazioni in cui il rischio, in particolare per la salute umana, pur non essendo fondato su semplici ipotesi non provate scientificamente, non ha ancora potuto essere pienamente dimostrato. In un tale contesto, la nozione di “rischio” corrisponde dunque ad una funzione della probabilità di effetti nocivi per il bene protetto dall’ordinamento giuridico cagionati dall’impiego di un prodotto o di un processo. La nozione di pericolo è, in tale ambito, usata comunemente in un’accezione più ampia e definisce ogni prodotto o processo che possa avere un effetto negativo per la salute umana (..). Di conseguenza, in un contesto come quello del caso di specie, la valutazione dei rischi ha ad oggetto la stima del grado di probabilità che un determinato prodotto o processo provochi effetti nocivi sulla salute umana e della gravità di tali potenziali effetti».

A conclusioni sostanzialmente analoghe è giunta la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Consiglio di Stato, Sezione Terza, n. 6655/2019).

Nel campo specifico dell’azione amministrativa a tutela dell’ambiente, l’attuazione del principio di precauzione è garantita dall’art. 301 del d.lgs. n. 152 del 2006 espressamente rubricata «Attuazione del principio di precauzione», nella quale si fa riferimento all’«alto livello di protezione» che «deve essere assicurato» nei casi «di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente», precisandosi che l’applicazione di tale principio «concerne il rischio che comunque possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva».

Sempre nel d.lgs. n. 152 del 2006, all’art. 3-ter, si stabilisce, in via generale, che «la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale».

La valutazione scientifica del rischio deve essere preceduta – logicamente e cronologicamente – dall’«identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno» e comprende, essenzialmente, quattro componenti: l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio. Essa consiste, dunque, in un processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti scientifici, cioè agli scienziati.

La valutazione scientifica deve fondarsi su «dati scientifici affidabili» e su un ragionamento logico «che porti ad una conclusione, la quale esprima la possibilità del verificarsi e l’eventuale gravità del pericolo sull’ambiente o sulla salute di una popolazione data, compresa la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati».

Il principio di precauzione consente, quindi, di adottare, sulla base di conoscenze scientifiche ancora lacunose, misure di protezione che possono andare a ledere posizioni giuridiche soggettive, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità inteso nella sua triplice dimensione di idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250).

Se, dunque, la fase della valutazione del rischio è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità”, la fase di gestione del rischio si connota altrettanto prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la sua “politicità”.

Ne deriva che il principio di precauzione non può legittimare un’interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 27.12.2013, n. 6250; Cons. Giust. Amm. Sicilia Sez. giurisd., 3.09.2015, n. 581).

La sua corretta applicazione non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, in assenza di un riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo, di contro, una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell’attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile.

L’applicazione di tali principi al caso di specie conduce al rigetto di quest’ultimo motivo di gravame.

4. Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato.

5. In ragione della parziale novità delle questioni sottese al gravame in esame, il Collegio ravvisa eccezionali ragioni, ex artt. 26 comma 1, c.p.a, e 92, c.p.c, per compensare integralmente le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto:

a) rigetta l’appello;

b) dichiara integralmente compensate tra tutte le parti costituite le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati:

Vincenzo Lopilato, Presidente FF

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Silvia Martino, Consigliere

Luigi Furno, Consigliere, Estensore

Paolo Marotta, Consigliere

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
Luigi Furno   Vincenzo Lopilato
     
     
     
     
     

IL SEGRETARIO

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